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“Per trauma in psicopatologia si intende un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile, inevitabile, di fronte alla quale un individuo è impotente” (Hermann, 1992; Krystal, 1988; Ven der Kolk, 1996), una risposta a un evento minaccioso più grande di ogni difesa che abbiamo a disposizione in quel momento, qualcosa a cui non riusciamo a reagire in modo tale da sentirci al sicuro e protetti.
In questi mesi, molti di noi potrebbero avere vissuto questa pandemia come traumatica, e traumatici potrebbero essere stati anche episodi a cui non siamo stati esposti direttamente ma dei quali siamo “solo” venuti a conoscenza, perché a volte siamo il contenitore della narrazione di ciò che sta accadendo alle altre persone.
Come risultato del trauma, potremmo produrre ricordi intrusivi o sogni spiacevoli, e ci potrebbe essere la presenza di una iperattività onirica, sia che la si ricordi sia che no, a causa del grosso carico emotivo che dobbiamo affrontare.
Potremmo riscontrare anche quelle che si chiamano reazioni dissociative, ovvero una grave sofferenza psicologica risultato di qualcosa che ci ricorda l’evento o che ce lo fa sentire improvvisamente come se si stesse ripresentando in questo momento. Adesso noi siamo costantemente in contatto con stimoli che ci ricordano il trauma che abbiamo vissuto: non esiste una comunicazione ufficiale o amicale senza che sia presente il tema dell’emergenza, della pandemia, del virus.
Facciamo un esempio molto semplice: stiamo andando in bicicletta, quindi stiamo facendo un’attività piacevole provando belle sensazioni. Ma accade che sentiamo il suono di un clacson e subito dopo un’auto ci investe e cadiamo. Non ci facciamo niente: ci spaventiamo e basta. Il giorno dopo siamo a casa, seduti in poltrona, magari facendo qualcosa che ci piace, e sentiamo il suono di un clacson. Cosa ci capita? Ci spaventiamo, perché lo stimolo ci fa rivivere le sensazioni nel corpo, nella mente e nelle emozioni di quando l’auto ci ha investiti, riproducendo tutto ciò che abbiamo provato mentre eravamo in bicicletta. Siamo geneticamente predisposti a ricordare gli elementi che ci avvisano di un pericolo imminente, quindi se incontriamo uno stimolo che ci riporta all’evento traumatico, reagiamo di conseguenza.
Essendo un’esperienza “facile”, possiamo rispondere dicendoci semplicemente che il suono del clacson è solo simile a quello di ieri, ma che adesso siamo al sicuro.
Ma adesso stiamo vivendo l’esperienza in cui in nessun luogo ci sentiamo al sicuro, non abbiamo più quella sensazione di pace e libertà che ci consentiva prima di differenziare il ricordo dell’esperienza brutta (la caduta in bicicletta) da quella reale (siamo comodamente sul divano di casa e sentiamo un suono proveniente dalla strada).
Per difenderci potremmo cercare di evitare gli stimoli che ci ricordano l’evento in ogni sua forma, cercando di fare come se non stesse accadendo. Sarebbe ovviamente un tentativo fallace che porterebbe a diverse conseguenze, per esempio serbare inconsapevolmente memorie e sensazioni fisiche legate al trauma, senza che si riesca a difendersene.
Oggi potremmo vivere un persistente stato emotivo negativo, segnalato anche dal corpo, con marcata riduzione degli interessi, sentimento di distacco ed estraneità verso gli altri, ottundimento emotivo (condizione di ovatta che circonda le emozioni a causa della quale non sentiamo con un impatto forte, nemmeno con le persone cui siamo più vicini, ma percepiamo solo che qualcosa non va), mancanza di un’area di piacere e desiderio di mente e corpo, senza la possibilità di emozionarsi positivamente, come se lo stato di attesa ci portasse a ridurre al minimo l’energia e l’investimento aspettando che questa condizione passi.
Se ci troviamo, come oggi, in una condizione di privazione e di mancanza di energie, nel momento in cui riceviamo uno stimolo esterno la nostra risposta sarà di fastidio e se lo stimolo dovesse aumentare diventerebbe probabilmente una risposta rabbiosa che potrebbe farci agire ira anche verso chi amiamo.
Potremmo anche sentire una costante ipervigilanza, o avere esagerate risposte di allarme, perché lo stato di allerta fa sì che stimoli anche piccoli possano produrre risposte sproporzionate.
Potremmo riscontrare difficoltà di concentrazione, quindi non riuscire per esempio a leggere o studiare. Teniamo presente che in questo caso staremmo funzionando adeguatamente rispetto agli stimoli contestuali: una mente in allarme non può abbassare l’allerta per fare altro, come leggere. Alcune funzioni mentali in stato di allerta si spengono e rimangono accese solo quelle che servono a difenderci, e non possiamo attivarne altre nemmeno sforzandoci.
Lo stesso processo si riscontra in caso di insonnia: la mente non abbassa il livello di allerta.
La reazione all’entrata nella fase due potrà essere molto varia: ci sarà chi risponderà con un alto livello di allarme e chi invece penserà che si potrà fare tutto ciò che si vuole. Questi sono ovviamente estremi situati in un continuum molto grande. Già da questa reazione possiamo capire come si sta reagendo agli stimoli esterni.
Se sentiamo un’allerta costante, non abbiamo una fase di ristoro e recupero energie, come se stessimo sempre a consumarle. Quindi viviamo uno stato di ansia generalizzato, dove tutto ci fa paura.
Adesso abbiamo perso la prevedibilità, la possibilità di sapere come si svolgerà la nostra quotidianità, perdendo di conseguenza quella sicurezza fondamentale perché non ci si debba occupare di tutto, faticando enormemente.
La marcata diminuzione della mobilità crea un danno enorme, perché le informazioni che arrivano alla mente sono di mancanza di libertà, e questo ha sicuramente un forte impatto dentro di noi.
Anche il senso del tempo si è sconvolto completamente. È come se vivessimo in un momento infinito, o troppo breve, in cui non ci sono più le cose che scandiscono gli istanti e danno loro un senso (il tempo di un fuori separato da un dentro, il tempo dell’incontro, delle attività, dello stare da soli, del trovarsi in luoghi diversi da quello in cui viviamo…).
Viene messo alla prova anche il nostro sentire di avere uno scopo nella vita: potremmo non riuscire più a dare senso a ciò che stiamo costruendo. Non sappiamo in cosa impegnarci perché il mondo sta cambiando; non riusciamo più a pensare che ciò che stiamo facendo oggi ci potrà aiutare a costruire ciò che faremo domani. Ne consegue una grande difficoltà nel progettare, anche perché le nostre energie sono concentrate sui nostri bisogni dell’oggi, con poco spazio per il domani, che è comunque molto incerto.
Sarebbe molto importante in questa fase costruire e conoscere strumenti per prevenire la cronicizzazione di questo stato di allarme. Perché diversamente molte aree della nostra mente potrebbero rimanere spente, funzionando come qualsiasi animale costantemente attento agli stimoli pericolosi, quindi pronto a difendersi o scappare, sentendoci vivi solo facendo la guardia, e spegnendoci subito dopo lo svanire del pericolo, senza accettare nuovi stimoli e sollecitazioni che ci distolgano dal nostro compito primario.
(Segue…)
*Diego Manduri, psicologo psicoterapeuta, presidente dell’associazione Approdi, esperto in diagnosi e cura dei disturbi post traumatici e nell’uso di strumenti non verbali in terapia, studioso della pratica clinica interculturale.