Vorrei partire da due notizie che ho letto negli ultimi giorni, che hanno fatto nascere in me qualche riflessione.
La prima: il Consiglio Nazionale degli Piscologi ha svolto una ricerca che ha evidenziato come più della metà degli italiani pensi che avrà bisogno di sostegno psicologico per affrontare il rientro nella normalità, sia per la paura del contagio che per le preoccupazioni riferite alle aspettative verso il futuro.
La seconda: la spiegazione di quella che chiamano “sindrome della capanna”, secondo la quale le persone che hanno gestito bene il lockdown sentirebbero molto di più lo stress derivante dal ritorno alla normalità.
Comincerei con l’evidenziare come per alcuni di noi l’inizio della fase due sarà accolta con sollievo e euforia, per la possibilità di riprendere alcune delle attività che ci sono tanto mancate. Per altri, invece, la propria casa in questi mesi è diventata un rifugio, un posto al sicuro, come potrei chiamarlo da terapeuta EMDR. Siamo stati in essa protetti dal contagio e dal virus, ma anche dalla frenesia, dallo stress delle corse quotidiane, dalle aspettative di performance che ci venivano richieste dall’esterno, dal “produci, consuma..”.
Inoltre adesso viene chiesto, per la seconda volta in pochi mesi, di lasciare un perimetro sicuro per inoltrarci nell’incerto.
Laura Guaglio, psicologa e psicoterapeuta, ci dice: “Ci sono diversi fattori che a livello individuale, in questo specifico caso, entrano in gioco ed alimentano la voglia di rimanere tra le mura di casa. Innanzitutto, il rifiutarsi di vedere o accettare che i propri riferimenti siano mutati sensibilmente. Se esco mi rendo conto di com’è cambiato il mondo che conoscevo. Vedo la città deserta, i negozi chiusi, le persone che incontro sono munite di mascherina, guanti. La nuova realtà è impattante, può sconcertare, disorientare, potremmo rigettarla. A questo, poi, si unisce un fattore molto più prosaico: a livello neurobiologico e fisico, meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò voglia di uscire. A cui, ancora, si sommano le paure sulle probabilità di un contagio”.
Biologicamente siamo animali che grazie alla capacità di adattamento all’ambiente e alla flessibilità sono riusciti a sopravvivere ed evolvere. Queste qualità sono importantissime anche nel ventunesimo secolo, quando per esempio siamo chiamati a dover rispondere a richieste sempre diverse a seconda dei cambiamenti che ci gravitano attorno o anche banalmente rispetto agli interlocutori che abbiamo davanti.
Quindi la maggioranza di noi si è (anche se a fatica) adattata al lockdown. E adesso dobbiamo ri-adattarci a una nuova situazione, che non è affatto sovrapponibile a quella di tre mesi fa, a qualcosa di diverso ancora.
Quindi, a pochi giorni dall’inizio della fase due, potremo oscillare fra l’entusiasmo di riavere parte della nostra libertà e l’ansia di dovere riprendere le attività fuori dal nostro involucro protettivo.
Sarebbe importante accettare con benevolenza e gentilezza qualunque emozione e pensiero sopraggiunga, senza giudicarlo, con un consapevole atteggiamento mindful (ne ho parlato qualche articolo fa), in modo da poter comprendere cosa ci sta accadendo, anche se lo giudichiamo disturbante o, peggio, non giusto.
Ricordiamo che abbiamo superato in altre occasioni impellenti necessità di adattamento, e che siamo riusciti ad affrontarle; sintonizziamoci su quei momenti e cerchiamo di sentire profondamente come le nostre risorse siano, appunto, nostre: le abbiamo usate allora, le abbiamo a disposizione adesso, anche se magari ci sembrano più lontane o meno accessibili.
Possiamo decidere di esporci gradualmente alla ripresa, almeno per ciò che è in nostro potere scegliere.
Stiamo affrontando sicuramente una situazione difficile, ma non impossibile.
Ho già scritto delle azioni protettive che sarebbe meglio adottare per aiutarci a stare meglio, dal consolidare i rapporti interpersonali con i mezzi che abbiamo a disposizione, e oggi con un briciolo di libertà in più, al continuare a fare movimento, adesso con la possibilità di stare un po’ più in contatto con la natura, al concederci di essere spaventati e confusi senza giudicare queste emozioni una debolezza, ma anzi ripartendo da esse per trasformarci ed evolvere, cercando un senso alle nostre difficoltà.
Ricordiamo a noi stessi che la paura è prima di tutto nostra alleata. Abbiamo il diritto di avere paura e abbiamo il “dovere” di accettarlo, consapevoli che chiedere aiuto (ai nostri cari così come a un professionista) non è sintomo di debolezza ma di intelligenza e coraggio.
Quindi, rispondiamo all’incertezza con qualche base solida su cui possiamo appoggiarci.
Prima di tutto, cerchiamo di rispettare le distanze fisiche e continuiamo a proteggere noi stessi e gli altri, curando quel senso di comunità che è stato sicuramente fortificato in molti di noi da questa emergenza globale. È il tempo della responsabilità, in cui dobbiamo sentirci coinvolti in prima persona nella necessità di continuare a fare qualche rinuncia per favorire la salute della collettività, in cui la capacità di essere prudenti, attenti e presenti sarà messa alla prova.
Veniamo da una ferita profonda in cui ci siamo sentiti impotenti, frustrati, impauriti e arrabbiati, e dobbiamo avere la capacità di accogliere questa crisi personale profonda, trovando un posto per la paura e per il coraggio di procedere, cercando un senso, individuale prima che collettivo, a quello che ci è accaduto e a come lo abbiamo affrontato riflettendo su quali parti di noi ha messo a nudo.
Concludo dicendo che la lenta ripresa che abbiamo iniziato avrà sicuramente un impatto benefico, in cui il trauma che tutti noi che abbiamo vissuto durante i mesi di deprivazione inizierà lentamente ad essere elaborato.
Partiamo dall’aprezzare le piccole conquiste quotidiane, quelle che qualche mese fa erano scontate ma che oggi sono foriere di stupore e gratitudine, come la sensazione del nostro viso sotto il sole.